venerdì 9 novembre 2012

Però pioveva.

Non ricordo il giorno, però pioveva. Dalla mia Moleskine:

Piove.
Le luci della città stanca si specchiano vanitose nell'asfalto bagnato, mentre l'acqua lava via dalle panchine storie troppo pesanti da sostenere e troppo leggere da lasciar volare via.
Ho gli occhi sporchi.
Sotto i portici c'è posto solo per quelli che si sono abbandonati, randagi: senza guinzagli, senza casa, senza meta, senza metà. Senza lacrime.
Oggi anche il tempo muore sulla strada, del suono della pioggia ne fa il suo lamento.
Cadrà nella notte anche il cielo, si raccoglierà in pozzanghera, e ci sarà battesimo per tutti i dispersi.

lunedì 5 novembre 2012

Il flauto di vertebre.

[e ancora una volta, lascio a Lui la mia buonanotte].


Il flauto di vertebre.

PROLOGO

A voi tutte che siete piaciute o piacete,

che conservate icone nell’antro dell’anima,

come coppa di vino in un brindisi,

levo il cranio ricolmo di canti.

Sempre più spesso mi chiedo

se non sia meglio mettere un punto

d’un proiettile sulla mia sorte.

Oggi darò

in ogni caso,

un concerto d’addio.

Memoria!

Raduna nella sala del cervello

le schiere inesauribili delle amate.

Da un occhio all’altro effondi il sorriso.

D’antiche nozze travesti la notte.

Di corpo in corpo effondete la gioia.

Che nessuno dimentichi una simile notte.

Oggi io suonerò il flauto

sulla mia colonna vertebrale.



1.

Miglia di strade i miei passi calpestano.

Dove andrò a nascondere il mio inferno?

Da quale Hoffmann celeste

sei stata concepita, maledetta?

Sono anguste le strade per una tempesta di gioia.

Gente adorna la festa senza posa attingeva.

Penso.

I pensieri, grumi di sangue,

infermi e rappresi strisciano via dal cranio.

Io,

taumaturgo di ogni tripudio,

non ho con chi andare alla festa.

Cadrò di schianto, supino,

sfracellandomi il cranio sulle pietre del Nevski!

Ho bestemmiato.

Ho urlato che Dio non esiste,

e lui ha tratto dal fondo dell’inferno

una donna che farebbe tremare una montagna,

e mi ha comandato:

amala!

Dio è soddisfatto.

Nell’erta sotto il cielo

un uomo tormentato s’è inselvatichito e spento.

Dio si strapiccia le mani.

Dio pensa:

aspetta, Vladimir!

L’ha escogitato lui, lui,

per non farmi scoprire il tuo mistero,

di darti un marito vero

e di porre sul pianoforte note umane.

Se furtivo m’accostassi alla soglia della tua alcova,

per far la croce sulla nostra coperta,

lo so,

si sentirebbe puzzo di lana bruciata

e fumo solfureo si leverebbe dalla carne del diavolo.

Ma invece fino all’alba

l’orrore che tu fossi condotta ad amare

m’ha sconvolto,

e le mie grida

ho sfaccettato in versi,

gioielliere già in preda alla follia.

Giocare a carte!

Sciacquare

nel vino la rauca gola del cuore!

Non ho bisogno di te!

Non voglio!

Non importa,

lo so

che creperò fra breve.

Se è vero che esisti,

o Dio

o mio Dio,

se hai intessuto il tappeto di stelle,

se questo tormento,

moltiplicato ogni giorno,

è, Signore, una prova mandata giù da te,

indossa la toga del giudice.

Aspetta la mia visita.

Sono puntuale,

non tarderò di un giorno.

Ascolta, altissimo inquisitore!

Serrerò la bocca.

Non udranno un grido

dalle labbra morse.

Legami alle comete, come alle code dei cavalli,

trascinami,

squarciandomi sulle punte delle stelle.

Oppure,

quando l’anima mia sloggerà

per venire al tuo tribunale,

accigliandoti ottusamente,

come una forca

distendi la Via Lattea,

e subito impiccami come un criminale.

Fa’ quello che ti pare.

Squartami, se vuoi.

Io stesso, giusto, ti laverò le mani.

Però,

ascolta!

Portati via la maledetta,

che m’hai comandato d’amare!

Miglia di strade i miei passi calpestano.

Dove andrò a nascondere il mio inferno?

Da quela Hoffmann celeste

sei stata concepita, maledetta?



2.

Il cielo,

fumoso, immemore d’azzurro

e le nubi a brandelli come profughi

rischiarerò nell’alba del mio ultimo amore,

vivido come l’incarnato di un tisico.

La mia gioia ricoprirà il ruggito

dell’ammasso, dimentico

del tepore domestico.

Uomini,

ascoltate!

Uscite dalle trincee.

Combatterete dopo.

Anche se dura la battaglia,

ubrica di sangue e vacillante come Bacco,

le parole d’amore non sono vane.

Cari tedeschi!

Io so

che avete sul labbro

la Margherita di Goethe.

Muore il francese

sulla baionetta sorridendo,

cone un sorriso si schianta l’aviatore ferito,

se ricorda

il bacio della tua bocca,

Traviata.

Ma a me che importa

della rosea polpa,

che i secoli masticheranno?

Oggi stendetevi ad altri piedi!

canto te,

imbellettata,

fulva.

Forse di questi giorni,

orrendi come aguzze baionette,

quando i secoli avranno canuta la barba,

resteremo soltanto

tu

ed io,

che t’inseguirò di città in città.

Sarai mandata di là dal mare,

ti celerai nel covo della notte:

ti bacerò attraverso la nebbia di Londra

con le labbra di fuoco dei lampioni.

In lente carovane percorrerai i torrdi deserti,

dove stanno leoni in agguato:

per te

sotto la polvere, strappata dal vento,

sarà un Sahara la mia guancia ardente.

Con un sorriso sulle labbra guardami,

vedrai

che torero che io sono!

E d’improvviso

getterò sul tuo palco la mia gelosia

come l’occhio morente del toro.

Se portando il tuo passo distratto sul ponte,

penserai

che si sta bene laggiù,

sarò io

sotto il ponte la corrente della Senna,

e ti chiamerò,

digrignando i putridi denti.

Con un altro incendierai nel fuoco dei cavalli

Strelka o Sokolniki.

Io starò in alto a farti soffrire

come un’ignuda luna in attesa.

Sono forte,

avranno bisogno di me

e mi ordineranno:

muori in battaglia!

Il tuo nome

sarà l’ultimo

rappreso sul mio labbro lacerato dal proiettile.

Finirò sul trono?

o a Sant’Elena?

Dominati i flutti tempestosi della vita,

sarò ugualmente candidato

al regno dell’universo

e al lavoro forzato.

Se è mio destino d’essere re,

il tuo viso

ordinerò di coniare al mio popolo

nell’oro vivo dell mie monete!

O laggiù,

dove si scolora il mondo nella tundra,

dove traffica il fiume col vento del nord,

sul ferro graffierò il tuo nome, Lilia,

e le catene bacerò nel buio della galera.

Ascoltate, immemori dell’azzurro cielo,

irsuti,

come bestie feroci.

Al mondo, forse,

questo ultimo amore

è un’alba vivida come l’incarnato di un tisico.



3.

Scorderò l’anno, la data, il giorno.

Mi chiuderò solo con un foglio di carta.

Avverati, magia sovrumana,

delle parole illuminate di pianto!

Oggi, appena entrato nella tua casa,

mi sono sentito

a disagio.

Tu celavi qualcosa nell’abito di seta

e s’effondeva nell’aria un profumo d’incenso.

Sei felice?

Hai risposto un freddo:

“Molto.”

L’inquietudine ha rotto l’argine della ragione.

Accumulo disperazione, nel delirio della febbre.

Ascolta,

tannto non ci riesci

a celare il cadavere.

Scagliami in viso la parola terribile.

Ogni tuo muscolo urla

lo stesso

come in un megafono:

è morto, è morto, è morto.

No,

rispondi.

Non mentire!

(Come farò a tornare indietro così?)

Come due tombe

ti si scavano gli occhi nel viso.

Le due fosse si inabissano.

Non se ne vede il fondo.

Mi sembra

di crollare sul palco dei giorni.

Come una fune, ho teso l’anima sul precipizio

e vi ho fatto l’equilibrista, giocoliere di parole.

Lo so,

ormai l’ha consunto l’amore.

Da tanti segni indovino la noia.

Fammi tornare giovane nell’anima.

La gioia del corpo fa’ di nuovo conoscere al cuore.

Lo so,

per una donna sempre si paga.

Non fa niente,

se intanto,

non ti vestirò conl’elegante abito di Parigi

ma soltanto col fumo della sigaretta.

Il mio amore,

come un apostolo d’età remote,

diffonderò per mille e mille strade.

Da secoli è pronta per te una corona,

ove sono incastonate le mie parole:

arcobaleno di spasimi.

Come fecero vincere Pirro

gli elefanti con passi di due quintali,

così io ho sconvolto il tuo cervello col passo del genio.

Invano.

Non potrò piegarti.

Gioisci,

gioisci

d’avermi finito!

Ora è tale l’angoscia che desidero

soltanto fuggire al canale

e il capo cacciare nell’acqua digrignante.

Mi hai offerto le labbra.

Con quanta indifferenza.

Le ho sfiorate e m’hanno ghiacciato.

M’è parso di baciare in penitenza

un monastero intagliato nella fredda pietra.

Hanno sbattuto

la porta.

É entrato lui,

rorido della gaiezza delle strade.

Io

come un gemito mi sono spezzato in due.

Gli ho gridato:

“Va bene!

Me ne andrò!

Va bene!

Rimarrà tua.

Ricoprila di stracci,

le sete appesantiscono le sue timide ali.

Bada che non s’involi.

Appendile al collo

come una pietra collane di perle!”

Oh, questa

che notte!

Ho spremuto a non finire la mia disperazione.

Al mio pianto e al mio riso

il muso della stanza s’è torto in una smorfia d’orrore.

E come una visione sorse a te il tuo sembiante,

sul suo tappeto effondevi l’aurora dei tuoi occhi,

quasi un sogno evocasse un nuovo Bialik

un’abbagliantte regina ebraica di Sion.

Nel tormento ho piegato i ginocchi

dinanzi a colei che non è più mia.

A mio paragone

re Alberto,

arresosi con tutte le sue fortezze,

è un festeggiato ricolmo di regali.

Indoratevi al sole, fiori ed erbe!

Dilagate in primavera, vita di tutti gli elementi!

Io un solo veleno desidero:

bere e bere sempre versi.

Tu che hai saccheggiato il mio cuore,

privandolo di tutto,

e nel delirio m’hai lacerato l’anima,

accogli, cara, il mio dono,

forse più nulla io potrò inventare.

Ornate a festa la data di oggi.

Avverati,

magia simile alla passione di Cristo.

Vedete,

sulla carta sono trafitto

con i chiodi delle parole.

V. Majakovskij

mercoledì 17 ottobre 2012

L'Attesa.

Lei se ne stava lì, seduta in panchina, al centro del suoi desideri a guardare, con la coda dell'occhio, tutto quel marasma di parole e sorrisi e vita che avrebbe voluto diventasse la sua. Se ne stava lì ad accendere, consumare e spegnere, in boccate di veleno, ogni minuto di speranza. Se ne stava lì, ferma e tremante, l'Attesa. È forse più che un nome una condanna, fin quando non decidi di cambiare nome e identità. Un solo nome non basta per chiamarmi, e l'Attesa già non basta più; per quanto il Nulla si faccia attendere, io non attendo più nessuno. Vedi? è già mattino, e c'è qualcosa di malato nell'alba di ogni coscienza: arriva improvvisa, dilata in tempo fino ad annullarlo; è il trasalire improvviso, è nausea. È andata così: fare le valige e partire. Via. Lontano da tutte le cose che hai aspettato nella speranza che accadessero. Via. Da me. Da te. Da voi. Da ogni coniugazione di questo nulla. Via.

giovedì 6 settembre 2012

e lascio a Majakovskij, la mia buonanotte.

h O1:17
All'ora del "punto e a capo", di una serata passata a pensare, torna sempre... Lui.
Non un uomo, ma un bisogno. Non un pensiero nobile, ma un desiderio osceno:  appendere ad una croce ogni singolo sentimento. come. ogni singolo. sentimento. appende ad una croce. me.
E lascio a V. Majakovskij la mia buonanotte, la mia notte buona.



Che cosa n'è venuto fuori
Più di quanto era possibile,
più di quanto fosse necessario,
come
in un sogno un incubo poetico,
quel groppo del cuore crebbe come una montagna:
una montagna d’amore,
una montagna d’odio.
Sotto il peso,
le gambe traballavano.
Sai
se io
sono ben piantato,
eppure
mi trascino ridotto a un’appendice cardiaca
curvo per tutta la larghezza delle spalle. 
Mi gonfio col latte dei versi,
non riesco a spargerne fuori;
non c’è chi ne voglia, pare, e di nuovo mi gonfio.
Mi ha spossato la lirica,
nutrice del mondo,
iperbole
del prototipo di Maupassant.


[tratto da A Piena Voce, Vladimir Majakovskij]

venerdì 24 agosto 2012

pag. 60

Fotografia di Roberta Trani  ©
<<Il corpo dimentica come l'anima; è forse ciò che spiega, in alcuni di noi, il rinnovarsi dell'innocenza. Mi sforzavo di dimenticare; quasi dimenticavo. Poi quell'amnesia mi spaventava. I ricordi, sembrandomi sempre incompleti, mi creavano altri supplizi. Mi ci gettavo sopra per riviverli. Mi disperavo all'idea che impallidissero. Non avevo che loro per compensarmi del presente e dell'avvenire ai quali rinunciavo. Dopo essermi proibito tante cose, non mi restava coraggio per proibirmi il passato.
Vinsi. A forza di pietose cadute e di più pietose vittorie, giunsi a vivere un intero anno come avrei desiderato vivere tutta la vita. Non devi sorridere, amica mia. Non voglio esagerare il mio merito: esser meritevoli per l'astensione da un peccato è una maniera di essere in colpa. Dominiamo qualche volta i nostri atti; dominiamo meno i pensieri; non dominiamo i sogni. Feci dei sogni. Conobbi il pericolo delle acque stagnanti. Sembra che agire ci assolva. C'è qualcosa di puro perfino in un atto peccaminoso, in confronto ai pensieri che ne ricaviamo.>>

Tratto da: Alexis o il trattato della lotta vana, Marguerite Yourcenar (1929).

domenica 8 luglio 2012

E arrivò anche la recensione su "La Gazzetta Del Mezzogiorno".

<< C'era una volta >>, oggi a Grottaglie si chiude la mostra di Trani.

L'ultimo giorno di << C'era una volta, storie di tempi in posa >>, mostra fotografica di Roberta Trani, qualcosa di indecifrabile assale. E non si tratta solo dell'impegno dell'artista grottagliese a destrutturare favole classiche - Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Pinocchio, Alice nel paese delle meraviglie- imponendo, attraverso il click fotografico, il gioco del "tempo in posa", la cifra della modernità, cioè l'assenza di lieto fine. Chi vorrà passeggiare tra le tredici fotografie esposte alla chiesa del Carmine (via Mastropaolo 123 a Grottaglie,  dalle 19 alle 23 di oggi, nelle stanze del laboratorio e.MOTIVA.mente) coglierà qualcosa che va oltre il cappio mediatico al quale impiccare Pinocchio vittima delle bugie confezionate da una contemporaneità nemica della persona, contemporaneità rappresentata dalla TV effetto neve, immagine senza immagine, moderno principe al quale ubbidire nel vangelo dell'omologazione alla menzogna. Qualcosa che -come in un pomeriggio assolato nelle campagne salentine, violento e tenue insieme nella forme e nei colori - taglia la luce dentro l'individuo facendo affiorare interrogativi: il volto di un'Alice  annegata, il dubbio doloroso di Cenerentola. Se le fiabe ubbidiscono a certe morali precise e affilate come lame, nel tunnel costruito dalle immagini di Roberta vedremo accelerare non la particella di Dio, ma quella dell'uomo. Fino all'estremo oltraggio nel quale convivono insieme inizio e fine, quell'impeto a soggiogare la natura - il lupo di Cappuccetto rosso finito dietro le sbarre di un canile - dentro il quale però si agita il lento scivolare dell'uomo sul crinale della propria apocalisse. Il rovescio della leopardiana Ginestra. Senza alcuna rivelazione se non quella della vergogna e, sopratutto, della rinuncia a restare umani.
[Fulvio Colucci]

articolo di Domenica 8 luglio 2012, La Gazzetta del Mezzogiorno.

martedì 26 giugno 2012

E arrivò anche la primissima recensione di "C'era una volta".

"Ci ha già sorpresi in Liberté, Roberta, cogliendo in profondità con i suoi scatti il grido del bisogno di umanità che non può essere soppresso da nessuna recinzione. Ora, con la personale C'era una volta, il suo sguardo sensibile usa il mezzo fotografico per riaccostarsi alla favola.Ma anche qui emerge un grido. Dall'immaginario alla realtà, il Vissero felici e contenti diviene altro, una lettura rivisitata, a volte impietosa quanto purtroppo lo è  il presente, e il c'era una volta diventa Oggi c'è... con un finale spesso senza lieto fine. I personaggi, Cenerentola, Pinocchio, Il lupo, Alice, si trasformano, per incarnare non più sogni ma un mondo sul'orlo dell'abisso, popolato di cronaca impietosa.   Ci riserverà di sicuro altre sorprese, questa giovane donna, riflessiva e attenta ai cambiamenti, che fa parlare la sua Nikon con scatti pronti a interpretare, con acume, il quotidiano della nostra storia..."              
Maria Letizia Gangemi




Maria Letizia Gangemi:
Nata a Corciano (Perugia), vive a Taranto. Tecnica pittorica: olio e acquerello. Premiata e presente in varie manifestazioni nazionali ed internazionali, tra cui il Maggio Romano, la Biennale di Malta, Europ'Art Group a Barcellona, Parigi. Ha ricevuto anche 
premi per la poesia. Negli acquerelli passa da nature morte, paesaggi, a figure macchia. Di lei hanno scritto Calabrese, Conti, Farrell, Gentile, Pietrobelli e Turco. E' in esposizione permanente presso il Cenacolo di alta Cultura "Lomastro" e presso la galleria di Palazzo Zigrino.Le sue tele sono sogni colorati stemperati con la magia del pennello.

giovedì 17 maggio 2012

La casa che abito.

la mia casa è di grandi finestre a vetri rotti; 
nessuna porta. nessun "welcome". nessun "goodbye".
Ho solo stelle inchiodate al soffitto e cocci di desideri sparsi sul pavimento. 
Vi basti questo per sognare tranquilli, nessun ladro ha mai provato a rubare le stelle.

Foto e testo di Roberta Trani © 2012



domenica 15 aprile 2012

In bianco e nero.


Che a rincorrerci nel buio abbiamo perso i colori. 
Abbiamo perso il fiato
e le parole
senza raggiungerci mai.
Arriverà
forse
il tempo in cui, tenendo lo stesso passo, riusciremo a darci fiato
risparmiandoci le parole.


testo e fotografia di Roberta Trani  - © 2011 -

domenica 1 aprile 2012

Aprile dolce dormire? svegliatevi.

 Ok è Primavera, sembra che anche tra i fiori sbocci l'amore, ma non lasciatevi ingannare... avete solo sbagliato a mettere a fuoco l'immagine.
                                                                                               
 
Foto di Roberta Trani © 2012

giovedì 29 marzo 2012

vasetti di latta

Foto di Roberta Trani ©

 a fine Marzo i colori sbocciano dai vasetti in latta  e si affacciano alle finestre.

mercoledì 28 marzo 2012

Pensieri in analogico.

Ci sono giorni stanchi e bui in cui gli orologi si fermano per indicare il tempo che non passa.
Giorni in cui dalle persiane chiuse filtra qualche raggio di sole e polvere, segno che il mondo lì fuori è sveglio, mentre nella camera oscura tutto dorme e si proiettano immagini sbiadite di tempi recenti già troppo lontani .
Anche il corpo si abbandona nelle ore mai trascorse. Quel che cammina tra la gente e si scontra con la vita è un pensiero sfocato, un insieme di luci ed ombre messo lì, senza un ragionevole motivo, senza giustizia. Un pensiero che tutto assorbe e poco lascia appeso al sottile filo della ragione.

Foto e Testo di Roberta Trani
©

venerdì 20 gennaio 2012

dopo i prelevamenti.

È risaputo:
tra me
e Dio
ci sono numerosissimi dissensi.
Io andavo mezzo nudo,
andavo scalzo,
e lui invece portava
una tonaca ingemmata.
Alla sua vista
mi riusciva appena
trattenere lo sdegno.
Fremevo.
Ora invece Dio è quello che deve essere.
Dio è diventato molto più alla mano.
Guarda da una cornice di legno.
La tonaca di tela.
Compagno Dio,
mettiamoci una pietra sopra!
Vedete,
perfino l'atteggiamento verso di voi è un po' cambiato.
Vi chiamo "compagno",
mentre prima
"signore".
(Anche voi ora avete un compagno),
Se non altro,
adesso
avete un'aria un po' più da cristiano.
Bene,
venite qualche volta a trovarmi.
Degnatevi di scendere
dalle vostre lontananze stellate.
Da noi l'industria è disorganizzata,
i trasporti anche.
E voi,
dicono,
vi occupavate di miracoli.
Prego,
scendete,
lavorate un po' con noi.
E per non lasciare gli angeli con le mani in mano,
stampate
in mezzo alle stelle,
che si ficchi bene negli occhi e nelle orecchie:
chi non lavora non mangia.

Vladimir Majakovskij (1930)

giovedì 19 gennaio 2012

A Cerano.

C'ERANO una volta
anche foglie al vento.


Centrale termoelettrica di Cerano (Brindisi)

lunedì 9 gennaio 2012

Provateci voi.

Provateci voi
a chiudere il mondo
in un sacchetto di plastica.

Provateci voi
a saziare di polvere e deserto
questa  fame chiamata Vita.

Provateci voi
a tenere il tempo di marcia
navigando su zattere di desideri.

Provateci voi
a dissetare questa bocca che sa di mare
che "Libertà va cercando",
promessa sposa da baciare.

Provateci voi.


 

Testo e foto : Roberta Trani © 2012

venerdì 6 gennaio 2012

Ti aspetto e ogni giorno
mi spengo poco per volta
e ho dimenticato il tuo volto.
Mi chiedono se la mia disperazione
sia pari alla tua assenza
no, è qualcosa di più:
è un gesto di morte fissa
che non ti so regalare.

Alda Merini.

Foto: Roberta Trani  © 2011