domenica 5 maggio 2013

Ballata delle madri (e recite domenicali).

-Vorrei fare come certi bambini, vorrei mettermi in piedi sulla sedia, durante uno dei pranzi domenicali in famiglia, e recitare una poesia. Esattamente questa:

Ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
– nel vostro odio – addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.


(P. P. Pasolini, Poesia in forma di rosa).

giovedì 18 aprile 2013

Aprile, poesie e rifioriture.

[Così che ti ritrovi, in un pomeriggio d'aprile, sotto un cielo glicine. È tutto così incredibilmente forte, scuote e annoda lo stomaco. È tutto così incredibilmente bello. Mi meraviglio, ci penso. Un po' come se - dopo il sonno del sogno - si schiudessero i sorrisi al risveglio.]

IL GLICINE.

... e intanto era aprile,
e il glicine era qui, a rifiorire.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Prepotente, feroce
rinasci, e di colpo, in una notte, copri
un intera parete appena alzata, il muro
principesco di un ocra
screpolato al nuovo sole che lo cuoce ...
E basti tu, col tuo profumo, oscuro,
caduco rampicante, a farmi puro
di storia come un verme, come un monaco:
e non lo voglio, mi rivolto – arido
nella mia nuova rabbia,
a puntellare lo scrostato intonaco
del mio nuovo edificio.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Tu che brutale ritorni,
non ringiovanito, ma addirittura rinato,
furia della natura, dolcissima,
mi stronchi uomo già stroncato
da una serie di miserabili giorni,
ti sporgi sopra i miei riaperti abissi,
profumi vergine sul mio eclissi,
antica sensualità . . . . . . . . .



[La religione del mio tempo, Pier Paolo Pasolini]



lunedì 18 marzo 2013

Senza filtro.


Succede che poi i filtri cadono. E si rompono.

Succede.
In passato ho spesso tenuto le palpebre serrate, per paura di ferirmi gli occhi
Filtravo. Tutto. 
Poi si inciampa, si distrugge, gli occhi si schiudono
Si rinasce.

E non me ne frega più nulla di ferirmi gli occhi: è l'unico modo per non diventare ciechi.

lunedì 14 gennaio 2013

Tipi da bar.


Guardare attraverso l'obiettivo è un po' porsi al di là del mondo circostante, nascondersi in una camera oscura per poi sorprendere la realtà nel momento in cui la luce ne disegna il volto più espressivo. Agli occhi spetta il compito di riconoscere e risvegliare la Poesia nel continuo scorrere della quotidianità, nel vivere o lasciarsi vivere delle singole storie inquadrate; compito della tecnica e del corpo meccanico è, invece, trascrivere la visione e renderla alla Storia, quella del nostro Tempo.
Un obiettivo che si pone come Obiettivo il risveglio della poesia, svelandone i tempi nel racconto della realtà quotidiana, non può che accettare l'invito a sedersi sullo sgabello di un bar, ordinare qualcosa da bere, guardarsi attorno e cominciare a mettere a fuoco: il Tempo è servito.
Per gli osservatori e ascoltatori non esiste un posto migliore -tavolino, poltrona o bancone che sia- di un bar qualsiasi per assorbire storie e immagini.
I bar, da sempre luoghi interessanti e affascinanti, sono paragonabili a grandi contenitori di storie: espresse o macchiate, versate in tazza bollente o fredda, offerte o pagate, trasparenti o dense, storie imbottigliate o servite in bicchiere. Eccole lì le storie, in fila al bancone, con le tasche piene di Tempi spiccioli e nel portafogli qualche biglietto colorato che non può pagare la Crisi, né quella mondiale, né l’eventuale e conseguente personale. Storie diverse che, a volte, si riversano sullo stesso bancone e in un bicchiere si miscelano, come in un cocktail, annullando distanze e dissapori. Molte sono storie di tempi riempiti e vuotati, fragili come bottiglie di vetro abbandonate ai bordi delle strade; altre sono quelle disperse nell’aria, che bruciano e si raccontano per il tempo di una sigaretta; altre ancora sono quelle sussurrate e confuse nel sovrapporsi delle voci e dei racconti; quelle raccontate con tranquillità e calma, e quelle rovesciate nell’ebbra illusione di avere il totale controllo di Sé e dei "se". Altre storie restano sul fondo, come quando lo zucchero non riesce a sciogliersi completamente nelle tazzine da caffè. 
C’è chi descrive i bar come posti perfetti per i perdi-tempo, chi li descrive come posti rilassanti nei quali rifugiarsi durante o dopo una giornata di lavoro, chi li predilige per la pausa-studio o come luogo di incontro, chi li usa come luogo per mettere a punto progetti e idee. Tutte verità e nessuna bugia, per carità, dipende dai casi e dalle inquadrature. 
Nel complesso, i bar restano i luoghi in cui la realtà è più confusa, ma allo stesso tempo più nitida se la si vuole osservare: un grande contenitore di storie che devono essere ascoltate, quelle dei figli di Tempi spiccioli, gli stessi spiccioli che bastano per prendersi un caffè.
Tempi ristretti in un periodo dilatato, tempi in cui è da “sfigati” non laurearsi entro i ventotto anni, tempi di “bamboccioni” trentenni, tempi di ventenni che non vogliono né lavorare, né studiare; tempi di sogni che inciampano e tornano a gattonare, tempi di ginocchia sbucciate che cedono alla forza di gravità di un’atmosfera che rallenta ogni tipo di percorso. 
Tempi di posa e tempi al di fuori di ogni posa.
Posto lo sguardo al di fuori della camera oscura, vuotando le tasche, faccio il conto degli spiccioli di tempo a disposizione e i Tempi spiccioli in cui mi ritrovo … “con questi chiari di luna” vale la pena sognare e tentare.


[marzo 2012]